L’OMS ha deciso: la dipendenza dal videogioco è una malattia mentale

La decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sollevato il dibattito internazionale sulla dipendenza dal videogioco e scatenato forti critiche

 

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha stabilito di inserire la dipendenza dal videogioco, nell’elenco delle malattie mentali. La procedura di questo percorso non è attualmente completa. La decisione era già nell’aria, ma dovrà essere approvata definitivamente dall’Assemblea Generale, nel maggio del 2019.

Il dibattito però è fortissimo e acceso, anche perché questo inserimento, arriva proprio quando il videogioco viene riconosciuto come mezzo di comunicazione culturale, come valido strumento didattico ed educativo e ci si avvia ad un uso persino politico del videogioco, quale valido mezzo per veicolare direzioni e contenuti.

Francesco Lutrario è il direttore del nostro Magazine, docente e coordinatore del Gamificationlab dell’Università La Sapienza di Roma.

Dopo la decisione dell’OMS, si apre uno scenario nuovo, con un dibattito internazionale intorno al mondo del videogioco.
Cosa bisogna aspettarsi ora e che ruolo “giocherà” la prevenzione nelle forme di dipendenza dal gioco?

“Occorre fare alcune precisazioni per affrontare il discorso della dipendenza da gioco. La prima riguarda il contesto a cui ci riferiamo, che sinceramente non mi è chiaro.

In Italia utilizziamo impropriamente il termine gioco per indicare anche il gioco d’azzardo. Tale confusione è in un certo senso autorizzata o tollerata dalle istituzioni. Una nota campagna di comunicazione, che teoricamente dovrebbe operare a fini di prevenzione e monito, recita: “il gioco è vietato ai minori di anni 18”. Immaginate voi che effetto possa avere su un bambino leggere che il gioco è vietato ai minori. E’ evidente come si stia parlando di “gioco d’azzardo” ma la parola azzardo non compare affatto, generando come minimo una grande confusione semantica. La lingua inglese è molto più precisa: per l’attività di gioco si usa il termine “play”, per lo strumento “game” e infine, riferendosi al gioco d’azzardo, si utilizza il termine gambling.

Ciò premesso è evidente che il gioco d’azzardo possa trasformarsi facilmente in una patologia, anche grave e con impatti deleteri a livello individuale e sociale. In questo contesto una vera attività di condanna e prevenzione, sarebbe benvenuta. Il problema è che il giro d’affari e gli interessi sono tali, da costituire una grossa barriera ad un intervento, normativo o preventivo, che porti degli effetti concreti, ovvero che riduca, alla fine, il giro d’affari dei gestori.

Dal mio punto di vista sarebbe proprio l’educazione al gioco vero, quello puro, “gratuito” e non finalizzato a produrre valori economici, la vera strategia da adottare per combattere la dipendenza dal gioco d’azzardo. Purtroppo in assenza di una volontà reale non c’è strategia che tenga.

Un discorso completamente diverso riguarda le altre possibili forme di possibili dipendenze che di fatto andrebbero inquadrate tra le degenerazioni del gioco. Queste ultime sono state ampiamente studiate e valutate come indicatori di disagio. In generale credo che possano essere ricondotte alla privazione, nel corso dell’infanzia, di esperienze ludiche corrette e adatte all’età evolutiva o, se vogliamo, alla privazione stessa del diritto al gioco.

Il discorso delle dipendenze in questo ambito o la presenza di esperienze ludiche deviate o compulsive non sono certamente da ricondurre al videogioco quanto al gioco in genere a prescindere dal supporto. Giocare per lunghi periodi, o intere fasi della vita, sempre al medesimo gioco senza che questa esperienza sia limitata spazialmente e temporalmente, denota che qualcosa non va. Questo a me sembra più il sintomo di un problema che non la causa ma non rientra nel mio campo di studi per cui evito di approfondire questo aspetto.

Parlando di degenerazioni basta fare riferimento a Callois e alla sua famosa classificazione.
In merito ai giochi di Agon (competizione) Caillois stesso ci dice che questi possono degenerare in violenza, inganno, brama di potere, ecc.
I giochi di Alea (fortuna) invece tendono a degenerare nelle superstizioni e, ovviamente, nell’azzardo compulsivo (ludopatia in senso stretto).

I giochi di Mimicry (maschera), i giochi di ruolo per fare un esempio, possono degenerare invece in forme di alienazione, sdoppiamento della personalità, ecc.
Quelli di Ilinx (vertigine) possono invece scadere nell’abuso di droghe o alcol o anche in forme estremamente pericolose di attività sportive (es. sport estremi portati al limite) in cui la ricerca appunto della vertigine viene fatta in un contesto in cui il rischio è tale da mettere a repentaglio la vita.

Ho premesso tutto ciò per fare chiarezza ed evitare che il tutto si riduca all’ennesima banale condanna dei videogiochi come se, questi, fossero un mondo a parte rispetto al complesso scenario del gioco in genere.
Se invece, volessimo tentare di usare le degenerazioni e le forme compulsive di gioco, come indicatori di disagio, allora tutto potrebbe avere un senso”.

Esistono ormai tante piattaforme intelligenti, dedicate ai bambini, che usano il gioco come momento di apprendimento e persino come strumento per il controllo e la cura della propria salute, può farci qualche esempio?

“L’impiego di giochi a fini didattici o di prevenzione è oramai un fatto noto che rientra nel novero di quella disciplina “ombrello” che è appunto la gamification di cui sono un accanito sostenitore. Il punto è che il gioco ha un’utilità e una necessità in sé a prescindere che sia o meno educativo o utile per finalità specifiche.

Il gioco è necessario per crescere e adattarsi al mondo sociale e fisico che ci circonda. Non si sarebbe bisogno di trovare vantaggi pratici se si comprendesse appieno il valore del gioco. Sinceramente speravo che da Piajet in poi questo tema non dovesse più essere messo in discussione”.

In queste ore molti sostenitori del videogioco come strumento culturale ed educativo, puntano il dito contro la decisione dell’OMS. Tra le tante posizioni, quella prevalente non riconosce il problema nel mezzo del videogioco, ma nella dipendenza, basandosi sul paragone con altre forme patologiche: non tutti quelli che bevono sono dipendenti dall’alcol, non tutti quelli che fumano sono accaniti fumatori dipendenti dalla sigaretta, così nel gioco non tutti quelli che giocano diventano dipendenti.

La gamification però, non è una tecnica che applica solo il videogioco, ma in generale le regole del gioco, anche le più semplici e basilari, realizzate con la carta, in altri campi. Possiamo quindi concludere che la gamification fatta bene è una nuova scienza umana, che rappresenta già un passo avanti rispetto al videogioco e a tutto il discorso della dipendenza dell’OMS?

“Da questo punto di vista sembrerebbe come il tutto si riduca ad una valutazione delle forme eccessive di gioco. E’ come se dicessimo che bere troppo fa male, ma che anche mangiare troppo pane non fa bene. Eppure nessuno penserebbe di proibire il pane. Io personalmente credo che dovremmo preoccuparci di più dell’esposizione alla TV e della dipendenza dai social network che dei videogiochi. Certo è che giocare compulsivamente ad un videogioco (ma anche ad un qualsiasi gioco) può denotare che qualcosa non va soprattutto se questo non determina forme di socializzazione bensì di isolamento.

Credo però che questo indichi disagi e problemi che possono essere evidenziati in genere da attività compulsive. Per assurdo anche io sarei molto preoccupato se i miei figli giocassero per decine di ore al giorno sempre allo stesso gioco e questo varrebbe anche se stessimo parlando, per esempio, degli scacchi. Certo il videogioco, più di altre forme ludiche, si presta ad essere associato a forme di isolamento il che, nel caso, costituisce il vero problema. Problema che non sarebbe diverso se tale isolamento fosse connesso alla visione compulsiva di serie o programmi TV”.


Fonte di riferimento http://www.salute.gov.it/

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