Il gioco nella filosofia: Aristotele (Stagira, 384a.C. – Calcide, 322a.C.)

Foto: Aristotele gioco

Il significato del gioco nella filosofia di Aristotele, uno dei pilastri della filosofia occidentale

Terzo articolo della collana “Il gioco nella filosofia” (curata da Brunella Antomarini, docente di filosofia presso l’università John Cabot di Roma). La collana ha l’obiettivo di illustrare come il gioco sia presente nella filosofia di vari pensatori e quale funzione esso abbia assunto nel corso della storia della filosofia.

Aristotele, a differenza del maestro Platone, non riconosce al gioco un valore alto e propedeutico. Al contrario, egli vede il gioco come l’attività frivola di un bambino, a cui gli adulti si dovrebbero dedicare solo nei momenti di riposo.

Nel famoso affresco “Scuola di Atene”, Aristotele regge con la mano sinistra l’Etica Nicomachea e tiene la destra sospesa con il palmo rivolto verso il basso, a indicare il mondo sensibile. Accanto a lui, Platone regge il Timeo con una mano e punta l’altra verso l’alto, a indicare invece il mondo delle idee. Ricorrere a questa rappresentazione grafica significa semplificare di molto le differenze fra i due, ma è tuttavia un espediente utile per introdurre il modo in cui Aristotele percepisce il gioco, che appunto diverge significativamente da quello di Platone. È bene tenere a mente, ad esempio, che Aristotele non condivide la teoria delle Forme ideali del maestro, o perlomeno non così come quest’ultimo l’ha formulata, bensì indaga in primo luogo il mondo sensibile per scoprirne i meccanismi e per fondare la sua etica e politica. Il suo interesse per ambiti tanto diversi quanto la scienza e la politica, la matematica e l’etica lo hanno reso uno degli autori più prolifici e influenti della storia. Di conseguenza, mentre Platone elogia il gioco per le sue qualità educative, Aristotele gli attribuisce poca importanza.

È possibile comprendere la concezione che Aristotele ha del gioco attraverso il                                  seguente passaggio, tratto dall’Etica Nicomachea:

Dunque la felicità non consiste nel divertimento. E infatti sarebbe assurdo che il fine fosse il divertimento e che ci si affaticasse e ci si affannasse per tutta la vita solo allo scopo di divertirsi. Tutte le cose infatti, per così dire, le scegliamo in vista di altro, eccetto la felicità; essa infatti è il fine. Invece l’agir seriamente e l’affaticarsi a scopo di divertimento sembra cosa sciocca e troppo puerile; mentre invece lo scherzare al fine di agire seriamente, secondo il detto di Anacarsi, sembra essere giusto. Infatti il divertimento sembra un riposo, giacché gli uomini, non potendo agire continuamente, hanno bisogno di riposo. Ma il fine non è il riposo: esso infatti sorge solo in vista dell’attività. Felice invece sembra essere la vita secondo virtù: essa infatti si svolge con serietà e non consiste nel divertimento. E noi diciamo che le cose serie sono migliori di quelle comiche e divertenti e chiamiamo più seria l’attività della parte migliore dell’uomo.

(Aristotele. Opere Vol.II (Mondadori 2008), Etica Nicomachea 1176b 29 -1177a 5, traduzione di Armando Plebe)

Aristotele dunque associa il “divertimento”, o gioco, alle cose “comiche e divertenti” e allo stesso tempo lo contrappone all’ “agire continuamente” e all’ “attività”, ovvero al lavoro. Per lui, il gioco può essere solamente un’attività cui dedicarsi nei momenti in cui non si può lavorare. L’uomo, in altre parole, gioca solamente a causa della sua imperfetta natura, la quale gli impedisce di dedicarsi senza sosta a ciò che veramente conta e lo costringe a cercare momenti di riposo e di svago.

Come si evince dal passaggio, il fine dell’uomo secondo Aristotele è la felicità, che è il bene più alto che si possa desiderare. Per essere felice, l’uomo deve vivere secondo ragione e conseguire così la virtù, che consiste appunto nell’uso della ragione e nel dominio della ragione sugli impulsi sensibili. Nel definire le attività attraverso le quali è possibile perseguire la felicità, Aristotele esclude i divertimenti e ribadisce l’importanza delle attività serie. Il motivo per cui “le cose serie sono migliori di quelle comiche e divertenti” diventa chiaro alla luce della sua concezione del bene e della felicità. Ogni uomo stabilisce ciò che la felicità è per sé stesso, quindi un uomo serio userà la ragione e si porrà un obiettivo che rispecchia effettivamente il bene, mentre un uomo inferiore assocerà la felicità a un’attività frivola. Sembra dunque che il significato di gioco per Aristotele sia l’attività dei bambini e non lo sport o le danze sacre come lo intende Platone. Aristotele infatti non rigetta del tutto il valore educativo dello sport, ma nota nel libro VIII della Politica che l’esercizio fisico deve essere moderato, altrimenti potrebbe compromettere lo sviluppo della mente.

In ultima analisi, Aristotele rigetta la possibilità che il gioco possa essere il fine, o telos, dell’uomo. Al contrario, il gioco, inteso quale attività ludica e di alcun valore educativo, assume un valore puramente strumentale in quanto permette all’uomo di svagarsi e riposarsi quando non può più dedicarsi a ciò che è veramente importante. Le ragioni per questa sua posizione meriterebbero un’analisi più approfondita, ma basti ricordare l’importanza che Aristotele attribuisce al vivere secondo ragione e a ciò che è serio.


Daniela Movileanu
Daniela Movileanu è studentessa di Relazioni Internazionali presso l'università John Cabot di Roma, dove sta conseguendo anche un minor in Filosofia. Praticando scacchi a livello sportivo, è interessata alla relazione fra il gioco e discipline accademiche. A febbraio 2017, ha organizzato presso la John Cabot University una lecture sul ruolo della creatività umana nell'era della tecnologia visto attraverso gli scacchi.

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